


Sullo spazio Facebook del
Movimento Unito detenuti ed ex detenuti UOMO NUOVO
( i grassetti e i link sono di www.collactio.com )
interessante intervista a Nicola Boscoletto, Presidente del Consorzio
di cui fa parte la Cooperativa Giotto attiva nel carcere di Padova
sui temi di attualità di carcere e lavoro, recidiva e amnistia, ecc. ecc.
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E dopo l’amnistia? «Fate lavorare i carcerati e vedrete: in galera non ci tornano.
L’ostacolo non sono le risorse»
Parla Nicola Boscoletto, responsabile della cooperativa Giotto, che insegna un mestiere
ai detenuti di Padova.
Un progetto “modello” elogiato da molti (anche nelle istituzioni) ma non ancora imitato.
La cooperativa Giotto da più di vent’anni si occupa della rieducazione dei detenuti del
carcere Due Palazzi di Padova. Li educa al lavoro. Fra le sbarre, i carcerati, imparano
a fare i giardinieri, i cuochi, gli operai. A lavorare.
Fino al 2001, la cooperativa si occupava esclusivamente dei condannati che scontavano
la pena con misure alternative al carcere, ottenendo come risultato un abbattimento
della recidiva, che arrivò al 15 per cento. «Poi – racconta Nicola Boscoletto, presidente
del consorzio sociale Giotto – abbiamo deciso di fare la stessa cosa con chi sconta la
pena in galera. Abbiamo fatto un ragionamento elementare: se i condannati iniziano
a lavorare durante gli anni della pena, la recidiva diminuisce ancora».
Giotto non cura i disagi sociali ma punta alla qualità e alla professionalità nel lavoro
(non per niente i galeotti che lavorano per la cooperativa producono un ottimo panettone).
«Il risultato del nostro impegno è che ora nove detenuti su dieci che lavorano con noi
non tornano più a delinquere. Si inseriscono nella società, una volta usciti, e trovano
una nuova strada per ritrovare la propria dignità nel lavoro».
Questi risultati si possono ottenere in altre carceri?
I nostri risultati sembrano eccezionali. Non dovrebbero esserlo. Dovrebbero essere
la normalità. Le persone che scontano una condanna in carcere, avendo subito una
privazione della libertà, devono essere rieducate al lavoro.
Altrimenti non serve a nulla scontare la pena. Bisogna ripristinare una normalità.
Mi è piaciuta la ministra della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, quando ha detto, in
un incontro avuto qui a Padova che, se queste cose si fanno alle Due Torri, a Bollate,
Torino, Roma, si devono fare ovunque. Non ci sono impedimenti a che ciò avvenga
se non aspetti culturali e ostacoli di tipo fisico, che vanno rimossi: bisogna far sì che
le carceri siano adatte al lavoro e non il lavoro alle carceri.
In che senso? Per farlo non c’è bisogno di investimenti? Il carcere di Padova e quello
di Bollate sono strutture nuove. Non è questo a fare la differenza?
La differenza la fanno le persone. Gli ostacoli di tipo culturale o fisico li determinano
le persone. Le cose non si fanno non perché ci sono strutture inadeguate, ma perché
le persone non si impegnano. Sono gli enti locali, le fondazioni bancarie, l’amministrazione
penitenziaria, i commissari di polizia, i magistrati, le associazioni, le imprese private
a doversi muovere. Quando si trova un direttore di carcere illuminato, quando si trovano
persone di una associazione che fanno il proprio lavoro, imprenditori privati che credono
nelle imprese sociali, gli ostacoli si possono superare. Poi c’è l’ultimo ostacolo che è il
concetto di produttività e qualità, che rimane un tabù per il settore pubblico.
Fuori dal carcere, gli ex detenuti riescono a ottenere un lavoro?
Sì. Quando i detenuti trovano la propria dignità, quando imparano a meritarsi lo stipendio
con il sudore della fronte, non vogliono più tornare a delinquere. Da noi i detenuti imparano
un metodo per vivere nella realtà. Un metodo che li aiuta a non trovarsi più a ricorrere
alla delinquenza. Quando escono dal carcere riallacciano i rapporti e trovano lavoro
come operai, giardinieri, cuochi. Se perdono il lavoro aspettano di trovarne un altro.
Si reinventano. Sanno che devono lavorare per guadagnarsi da vivere.
Oggi si parla di amnistia per risolvere l’emergenza del sovraffollamento carcerario. Cosa ne pensa?
Tanto di cappello al presidente Giorgio Napolitano che sta denunciando da tempo la situazione
del sistema penitenziario italiano, e chiedendo che i condannati siano rieducati come sancito
dalla Costituzione. Il carcere italiano non è solo un problema per la dignità dei detenuti, ma
per la dignità di 60 milioni di italiani. Un problema di civiltà per l’occidente e per l’Italia.
Se calpesti la dignità dei detenuti, la responsabilità è di tutti i cittadini. L’amnistia non farà
magie. Soprattutto perché il carcere è come un campo abbandonato da trent’anni dove
cresce la gramigna. Ma bisogna farla. E contestualmente all’amnistia bisogna fare le riforme,
perché i problemi non si risolvono spostandoli nel tempo, come accadrebbe se ci fosse
soltanto l’amnistia.
Quali riforme andrebbero fatte?
Primo, bisognerebbe eliminare la coincidenza fra pena e carcere. Chi lo ha detto che ci
deve essere una detenzione in carcere per ogni reato?
Bisogna usare le misure alternative, bisogna puntare alla rieducazione. Le soluzioni per persone
e reati diversi non possono essere uguali. Serve varietà. Servono depenalizzazioni.
Servono strumenti per la salute, il lavoro, la scuola. E una volta per tutte bisogna fermare
l’uso che si è fatto in questi anni della custodia cautelare. Deve essere applicata solo
ai casi veramente necessari. Non è possibile che 20 mila detenuti aspettino un processo
in carcere.
Il carcere come dovrebbe essere concepito?
Per la rieducazione. Le persone devono capire che il modello applicato in Italia non fa
veramente espiare la pena. Tenendoli lontani dal mondo, i carcerati non espiano la pena.
Si nascondono dalla realtà. Lì nessuno li vede e vengono loro calpestati i diritti.
Alla fine si sentono liberi di dire: anche a noi ci hanno fatto dei torti, quindi in fondo quello
che abbiamo fatto non è più importante. Una posizione di comodo che non aiuta a fermare
la recidiva. Invece bisognerebbe farli confrontare con la realtà per farli cambiare.
Mi ricorderò sempre un episodio che accadde a un pluriomicida, venuto con noi alla mostra
di Giotto al Meeting di Rimini 2008. Stava presentandosi a un gruppo di persone,
raccontando loro la sua vita, e a un certo punto una bambina di otto anni gli ha chiesto:
«Ma prima di uccidere non potevi pensarci due volte?». Lui si è bloccato: «Hai ragione»,
le ha detto. Ed è corso da me. Non voleva più farsi vedere. Io e gli altri, invece,
lo abbiamo ributtato nella mischia. Aveva appena iniziato a scontare la pena.
L’ostacolo non sono le risorse»
Parla Nicola Boscoletto, responsabile della cooperativa Giotto, che insegna un mestiere
ai detenuti di Padova.
Un progetto “modello” elogiato da molti (anche nelle istituzioni) ma non ancora imitato.
La cooperativa Giotto da più di vent’anni si occupa della rieducazione dei detenuti del
carcere Due Palazzi di Padova. Li educa al lavoro. Fra le sbarre, i carcerati, imparano
a fare i giardinieri, i cuochi, gli operai. A lavorare.
Fino al 2001, la cooperativa si occupava esclusivamente dei condannati che scontavano
la pena con misure alternative al carcere, ottenendo come risultato un abbattimento
della recidiva, che arrivò al 15 per cento. «Poi – racconta Nicola Boscoletto, presidente
del consorzio sociale Giotto – abbiamo deciso di fare la stessa cosa con chi sconta la
pena in galera. Abbiamo fatto un ragionamento elementare: se i condannati iniziano
a lavorare durante gli anni della pena, la recidiva diminuisce ancora».
Giotto non cura i disagi sociali ma punta alla qualità e alla professionalità nel lavoro
(non per niente i galeotti che lavorano per la cooperativa producono un ottimo panettone).
«Il risultato del nostro impegno è che ora nove detenuti su dieci che lavorano con noi
non tornano più a delinquere. Si inseriscono nella società, una volta usciti, e trovano
una nuova strada per ritrovare la propria dignità nel lavoro».
Questi risultati si possono ottenere in altre carceri?
I nostri risultati sembrano eccezionali. Non dovrebbero esserlo. Dovrebbero essere
la normalità. Le persone che scontano una condanna in carcere, avendo subito una
privazione della libertà, devono essere rieducate al lavoro.
Altrimenti non serve a nulla scontare la pena. Bisogna ripristinare una normalità.
Mi è piaciuta la ministra della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, quando ha detto, in
un incontro avuto qui a Padova che, se queste cose si fanno alle Due Torri, a Bollate,
Torino, Roma, si devono fare ovunque. Non ci sono impedimenti a che ciò avvenga
se non aspetti culturali e ostacoli di tipo fisico, che vanno rimossi: bisogna far sì che
le carceri siano adatte al lavoro e non il lavoro alle carceri.
In che senso? Per farlo non c’è bisogno di investimenti? Il carcere di Padova e quello
di Bollate sono strutture nuove. Non è questo a fare la differenza?
La differenza la fanno le persone. Gli ostacoli di tipo culturale o fisico li determinano
le persone. Le cose non si fanno non perché ci sono strutture inadeguate, ma perché
le persone non si impegnano. Sono gli enti locali, le fondazioni bancarie, l’amministrazione
penitenziaria, i commissari di polizia, i magistrati, le associazioni, le imprese private
a doversi muovere. Quando si trova un direttore di carcere illuminato, quando si trovano
persone di una associazione che fanno il proprio lavoro, imprenditori privati che credono
nelle imprese sociali, gli ostacoli si possono superare. Poi c’è l’ultimo ostacolo che è il
concetto di produttività e qualità, che rimane un tabù per il settore pubblico.
Fuori dal carcere, gli ex detenuti riescono a ottenere un lavoro?
Sì. Quando i detenuti trovano la propria dignità, quando imparano a meritarsi lo stipendio
con il sudore della fronte, non vogliono più tornare a delinquere. Da noi i detenuti imparano
un metodo per vivere nella realtà. Un metodo che li aiuta a non trovarsi più a ricorrere
alla delinquenza. Quando escono dal carcere riallacciano i rapporti e trovano lavoro
come operai, giardinieri, cuochi. Se perdono il lavoro aspettano di trovarne un altro.
Si reinventano. Sanno che devono lavorare per guadagnarsi da vivere.
Oggi si parla di amnistia per risolvere l’emergenza del sovraffollamento carcerario. Cosa ne pensa?
Tanto di cappello al presidente Giorgio Napolitano che sta denunciando da tempo la situazione
del sistema penitenziario italiano, e chiedendo che i condannati siano rieducati come sancito
dalla Costituzione. Il carcere italiano non è solo un problema per la dignità dei detenuti, ma
per la dignità di 60 milioni di italiani. Un problema di civiltà per l’occidente e per l’Italia.
Se calpesti la dignità dei detenuti, la responsabilità è di tutti i cittadini. L’amnistia non farà
magie. Soprattutto perché il carcere è come un campo abbandonato da trent’anni dove
cresce la gramigna. Ma bisogna farla. E contestualmente all’amnistia bisogna fare le riforme,
perché i problemi non si risolvono spostandoli nel tempo, come accadrebbe se ci fosse
soltanto l’amnistia.
Quali riforme andrebbero fatte?
Primo, bisognerebbe eliminare la coincidenza fra pena e carcere. Chi lo ha detto che ci
deve essere una detenzione in carcere per ogni reato?
Bisogna usare le misure alternative, bisogna puntare alla rieducazione. Le soluzioni per persone
e reati diversi non possono essere uguali. Serve varietà. Servono depenalizzazioni.
Servono strumenti per la salute, il lavoro, la scuola. E una volta per tutte bisogna fermare
l’uso che si è fatto in questi anni della custodia cautelare. Deve essere applicata solo
ai casi veramente necessari. Non è possibile che 20 mila detenuti aspettino un processo
in carcere.
Il carcere come dovrebbe essere concepito?
Per la rieducazione. Le persone devono capire che il modello applicato in Italia non fa
veramente espiare la pena. Tenendoli lontani dal mondo, i carcerati non espiano la pena.
Si nascondono dalla realtà. Lì nessuno li vede e vengono loro calpestati i diritti.
Alla fine si sentono liberi di dire: anche a noi ci hanno fatto dei torti, quindi in fondo quello
che abbiamo fatto non è più importante. Una posizione di comodo che non aiuta a fermare
la recidiva. Invece bisognerebbe farli confrontare con la realtà per farli cambiare.
Mi ricorderò sempre un episodio che accadde a un pluriomicida, venuto con noi alla mostra
di Giotto al Meeting di Rimini 2008. Stava presentandosi a un gruppo di persone,
raccontando loro la sua vita, e a un certo punto una bambina di otto anni gli ha chiesto:
«Ma prima di uccidere non potevi pensarci due volte?». Lui si è bloccato: «Hai ragione»,
le ha detto. Ed è corso da me. Non voleva più farsi vedere. Io e gli altri, invece,
lo abbiamo ributtato nella mischia. Aveva appena iniziato a scontare la pena.